ORIZZONTI VISIBILI
E’ la natura a far muovere i pennelli nelle mani di Antonio Favale. E’ il fascino del paesaggio a colori, con le sue variegate geometrie, a far nascere il desiderio di fermare l’istante di una visione per catturarne tutta la forza e la magia. La tela è il fondale di una proiezione emozionale e immaginifica che seduce l’occhio dello spettatore e quasi lo trascina nei vortici cromatici che si susseguono senza tregua.
La linea di terra individua orizzonti facilmente debordanti sui quali si innestano squarci di cielo sereni e tenebrosi, calmi e agitati, immobili e tormentati. E’ il chiasmo della vita, è l’alternanza delle passioni e degli stati d’animo che la forma pittorica costruisce, identifica, mostrandoci la chiave dell’esistenza. Come diceva Paul Klee “Il colore è il luogo dove l’universo e la mente si incontrano”.
Che agisca sulle tele di grandi o di piccole dimensioni, che operi secondo uno sviluppo verticale o orizzontale, non muta l’intenzione di Antonio Favale di dare corpo e voce alla sua stessa vita in un processo costante di fedele immedesimazione, di trascrizione attraverso l’albero, la casa, la collina, l’acqua, la nuvola o la vela, di un io vigile e attento, parte certa e attiva del mondo. Ci sentiamo avvolti dai cromatismi accesi e saturi, dalle lagune fluttuanti e interrotte, dai fondali marini variegati o dalle distese di grano dell’assolata, amatissima, Puglia perché si tratta, prima di tutto, del suo mondo interiore che ci viene presentato nell’essenza e nella coscienza più vere e autentiche.
A volte la superficie dipinta si sfalda e il pigmento si scioglie in rivoli di luce che traguardano l’estremità inferiore del quadro: sono forse i ricordi, gli abbandoni o le illusioni che attendono un’altra forma, che ambiscono a diventare altro, a trasformarsi in latitudini esperienziali differenti.
La composizione sicura e calibrata, le pennellate rapide e pastose tese a creare volumi ed effetti chiaroscurali, ci restituiscono uno stile inconfondibile marcato dalla frequente cornice bianca dentro lo stesso quadro, un quadro nel quadro, a far risaltare l’affaccio personale della visione, l’avamposto privilegiato dal quale si concretizza ogni rappresentazione.
Ci piacciono in modo particolare le “riprese” dall’alto, le prospettive aeree vaste e dilatate in cui dominano e trionfano gli sconfinamenti delle tessiture cromatiche a macchia. Quando poi l’artista interviene direttamente con scalfitture e incisioni mediante la punta rovesciata del pennello o con uno stiletto, l’opera acquista una connotazione grafica che la rende ancora più “umana” e reale, come se l’urgenza espressiva si materializzasse con maggiore forza e intensità.
Antonio Favale predilige l’olio ma non mancano, acquerelli e matite, esiti felici di una mente versatile che non conosce sosta e limiti. Ecco allora come nei soggetti abituali del mare, delle montagne, dei campi e delle regate, la fluidità dell’olio è sostituita dalle molteplici sfumature dei pastelli che alimentano scene elaborate e suggestive, pregne di evocazioni liriche e rimandi poetici.
Sulla scia di una continua sperimentazione, degne di nota sono le realizzazioni tridimensionali con materiali extrapittorici, quali terracotta e bronzo, dove l’impianto figurativo si rende meno palese a favore di una più elevata sintesi e astrazione. Si tratta pur sempre di lembi di realtà, di dettagli: una foglia, un sasso, una vela che l’artista estrapola dai suoi “compendi naturali” per un bisogno tattile, per il gusto di plasmare nella materia tutte le forme dei suoi profondi orizzonti visibili.
Lorena Gava
UN ARTISTA DEL NOSTRO TEMPO SI MISURA CON LA VIA CRUCIS
La liturgia della Via Crucis, nella precisa scansione attraverso quattordici stazioni codificata da Clemente XII nel 1731, e celebrata in questa forma fino a qualche decennio fa, ha visto la diffusione in tutte le chiese della sua rappresentazione: rari gli esemplari di grande valore come quella di Giandomenico Tiepolo per la chiesa veneziana di San Polo alla metà del Settecento o quella di Alessandro Pomi per il Duomo di Treviso negli anni trenta del Novecento; per lo più si tratta di stampe e riproduzioni seriali o di bassorilievi di stile agiografico, anche se non sono mancati validi tentativi di ridare autenticità religiosa ai diversi episodi da parte di artisti contemporanei.
E' sulla spinta di una personale ricerca spirituale, al di là di un eventuale utilizzo liturgico, che Antonio Favale ha affrontato il tema della Via Crucis: ne scaturisce un'opera che pur dichiarando nella successione degli episodi – i quattordici della tradizione, più il quindicesimo con la Resurrezione di recente introduzione – la sua adesione ai canoni, se ne allontana tuttavia alla ricerca di un personale punto di vista.
Nessuna concessione a una narrazione descrittiva: una scena assoluta nella sua nudità che si ripete con variazioni appena percettibili nella scansione della stazioni. Necessitano concentrazione e meditata attenzione per cogliere il procedere della croce – un segno appena accennato – lungo la via verso il Calvario; e ancora attenzione per mettere a fuoco il lieve e progressivo variare della luce, che si fa più rosea nel tono via via che nel percorso entrano le figure femminili: la madre di Gesù, la Veronica, le donne di Gerusalemme. L'accumulo di nuvole fosche e l'oscurità del cielo portano al momento drammatico della morte, e alle successive stazioni della deposizione e della sepoltura; mentre un'atmosfera rasserenata e la presenza di ulivi ubertosi al posto delle croci – allontanato fuori dalla scena lo scabro Calvario – apre l'animo alla gioia della Resurrezione.
La partecipazione dell'artista – umana e spirituale – all'evocazione dell'evento, si fa presente e si evidenzia nelle colature di colore – memoria del sangue di Cristo? – quasi preghiera, quasi eco di quei testi, non scevri di qualche retorica, ma carichi di mistica emozione, che accompagnavano il percorso da una stazione all'altra attraverso la chiesa, del supplice canto “Santa Madre, deh Voi fate che le piaghe del Signore siano impresse nel mio cuore”. Così, invece, nell'estrema esemplificazione della scena, nel discreto variare delle luci e dei toni viene evitata l'enfasi connessa alla liturgia, mentre intatto rimane il coinvolgimento spirituale, sincero e profondo.
Eugenio Manzato
Continua e si evolve in questa rassegna che l’autore propone come metafora della favola ( da qui il titolo “C’era una volta …”), la saga dei libri che, invadendo ogni spazio libero – dalle librerie alle sedie , dai tavoli agli angoli più nascosti – paiono rincorrersi, in festosa disordinata armonia. Nelle sinfonie coloristiche di frastagliati arcobaleni in alternativa a disinvolte immersioni in morbide, ampie monocromie; quasi a carpirne i delicati riflessi di rosa, azzurro, viola, verde. Dove il colore si fa segno e il segno dilata nel colore rubando alla tavolozza, ora ricca ora lieve e quasi trasparente, il compito di raccontare la vita attraverso brandelli di favole.
Ecco, allora tradizionali protagonisti delle fiabe infantili, infilarsi tra un titolo e l’altro per affermare la loro presenza: dall’irrequieto Pinocchio al grillo parlante, dalla lampada di Aladino alla scarpina di Cenerentola, dal sonnolento Pisolo al principe Azzurro, per nulla infastiditi dalla presenza di un certo Pichititinella , goloso di fichi secchi che si racconta, oltre che attraverso la tavolozza, nella voce parlante dello stesso autore.
Che c’entrano le favole con la rassegna?, qualcuno potrebbe chiedersi.
C’entrano eccome! Perché è nell’elemento favole e nei libri che le contengono che Antonio Favale si esprime, come artista e come uomo, traendo da ogni storia spunti di riflessione attraverso un dipingere che assembla memoria e astrazione, tecnica e cultura. Dando alla sua opera la vera funzione di lingua universale.
Benché improntata in gran parte sull’aderenza al titolo, questa rassegna non tralascia altri temi che concorrono ad evidenziare nell’eleganza e nella purezza della tecnica acquarello-pastello su tela, la presenza di una spazialità tematica ( la verticale disciplina della fioritura boschiva, le coloratissime vele come impegnate in una danza, la piccola libreria di un bimbo e quella più sostanziosa del padre) . Un insieme di tematiche capaci di dare sostanza ai pensieri e ai sussulti dell’anima. In questo contesto l’arte di Favale si fa memoria, astrazione e attualità dando alla tavolozza, ora ricca e quasi prepotente, ora flessibile nelle delicate vibrazioni, il compito di “raccontare”, a resuscitare una quotidianità molto spesso depauperata della sua vera sostanza.
Vittoria Magno
Abbiamo seguito in silenzio e invisibili, la Regina che maestosamente saliva i polverosi gradini di moquette della roulotte-biblioteca mentre abbaiavano i cani reali e quando siamo scesi eravamo già dentro a un bosco con un bimbo che sognava l'altezza e un burattino che cercava di difendere verità insostenibili, sotto al banco massiccio e minaccioso di un'aula di tribunale.
Eravamo lì quando hanno dischiuso le sbarre della prigione e siamo corsi chissà dove e poi ci siamo scontrasti con un tronco alto, robusto che abbiamo subito scalato solo per il gusto di mangiare fichi sporcandoci mani e bocca affacciati da un ramo come da una finestra, spensieratamente in attesa.
I luoghi delle fiabe e della letteratura sono spazi organizzati che si offrono per singole stanze, per scorci disegnati da nitide fette di luce, per paesaggi tipizzati ma sconosciuti che hanno il compito precipuo di aprire, splancare tutte le porte di quella casa del pensiero e della fantasia in cui abitiamo.
Sono porzioni di oggetti, ombre, libri, giochi, animali che si trasformano poi attraverso la parola e la figura in percorsi fantastici e la loro autentica natura si inscena solo dopo aver smorzato i colori della banalità quotidiana e adulta e aver acceso il nitore della fantasia.
In queste opere Antonio dialoga con la grande tradizione della fiaba.
Dal grembo infinito della tradizione orale si possono identificare in Europa le prime testimonianze scritte di fiabe nella seconda metà del XVI secolo per poi subito soffermarsi su “Il Pentamerone (1634-36) di Giambattista Basile in dialetto napoletano e “I racconti di mia madre l'Oca” (1697) di Charles Perrault dove trascrive per la prima volta fiabe famose come Cappuccetto Rosso, la Bella Addormentata nel bosco, il Gatto con gli Stivali
I piccoli personaggi lucidi di vernice che stanno sugli scaffali di Antonio o frenano le pagine dei suoi libri giganti sono quelli dei fratelli Grimm e di Collodi, oggetti inanimati sul bordo dello scaffale, in bilico e muti come la ballerina di stagno ma pronti a rivelare solo a chi è in ascolto, la vera e poetica natura delle cose e della vita.
Il suo linguaggio è perfetto per questo tipo di conversazioni.
Il suo è il linguaggio del limite (una banda cromatica, una cornice) che circoscrive lo spazio da possedere.
La realtà, quella esterna, quotidiana e adulta se consideriamo il piano letterario o la vastità, se consideriamo le marine o gli orizzonti assolati della sua pittura esistono ma non devono necessariamente trascinare nel nulla estatico possono dialogare.
Antonio ha studiato scenografia a Bari sa fingere gli spazi, quelli migliori; gli spazi vasti e confortevoli della immaginazione. Lui sa come si debba focalizzare un'immagine per permettere agli altri, ad un pubblico seduto che aspetta, di sfocare la realtà, ridimensionarla per poterci dialogare: come in una scena teatrale vi è un unico luogo, tempo e spazio, coi quali lo spettatore immagina, costruisce storie e racconti senza timori e coscienza di limiti pur essendocene.
Questo accade, a mio parere, nei quadri di Antonio: elementi visibili e non visibili costruiscono l'immagine attraverso dei vuoti vincolanti.
E' questo il caso delle evanescenti seggiole che reggono coloratissimi libri gonfi di bianche pagine materiche e opalescenti; notti dense e stellate che i dorsi di quei libri vogliono allestire demolendo gli scaffali sempre più eterei che perdono, dentro a quel blu di fiaba, ogni funzione e consistenza.
Luoghi sinistri e incantati, tempi e spazi indeterminati, linguaggio sobrio e accogliente queste sono allora le caratteristiche comuni dei due linguaggi di questa sera: fiaba e pittura
E un luogo principe per questo tipo di dialoghi sono i boschi, i suoi boschi.
Per chi già conosce i soggetti della pittura di Antonio dalle librerie, luoghi domestici di inesauribili e silenti conversazioni ci si affaccia alle sue finestre. Lo sguardo sorridente di Antonio si appoggia al suo davanzale che riprende il concetto di limite e ci traghetta verso la mobilità del paesaggio, dei tanti paesaggi luccicanti come vetro colorato di Antonio, fino ad approdare qui, nel bosco, dove l'armonia si sfalda nella prospettiva insidiosa dei lunghi tronchi, che accoglie ma confonde, indica più vie mal illuminate.
Nella veloce zumata le fenditure prospettiche fra i tronchi vengono presto annientate dalla vertigine del legno chiaro che svetta e porta a chiome morbide ma solo immaginate.
Né animali, né uomini, né mulini, né campi né case porgono al pubblico una bussola e questo perdersi è divertente.
Con la stessa inquadratura compaiono, su psichedelici prosceni, animali enormi, silenziosi, in paziente e innaturale immobilità per permetterci di possederne le forme mentre Antonio stringe gli occhi sulle luci che sbiancano i volti, le espressioni.
L'immagine armoniosa ed organizzata di queste opere è una rappresentazione scettica, perplessa e divertita di un ordine solo apparente. I bordi immacolati che la stringono sono la sua sostanziosa base d'appoggio, tutta intrisa della cromia materica che Favale ritiene necessaria per raccontarci il suo concetto di orizzonte.
L'architetto Francesco Venezia ha scritto: “Il margine è un diniego ma al tempo stesso un accrescersi a dismisura di ciò che, non potendo estendersi, si raggruma, rifluisce, fino a raddoppiarsi come nell'immagine riflessa nell'acqua.” e io mi permetto di aggiungere della nostra sorridente fantasia di questa sera.
Francesca Magnano
Le opere di Antonio Favale si collocano in una dimensione sospesa tra il reale e l’irreale avviando un processo di materializzazione dell’immaginario.
Le composizioni, quasi sempre organizzate in spazi razionali, con tagli rigorosamente verticali o orizzontali, sono spesso arricchite da piccoli particolari architettonici come archi, timpani, frontoni, colonnati o balaustre.
Tra i suoi soggetti preferiti - nei quali si fondono il mistero e l’antico - vi sono prevalentemente finestre e balconi, ma non mancano gli interni soffusi di abitazioni che infondono calore e armonia. Tra questi ultimi, i libri e le librerie si stagliano per la peculiarità dell’esecuzione tecnico-pittorica; tali soggetti, infatti, pur realizzati in modo labile e sfuggente mantengono inalterato l’effetto plastico e l’efficacia nella resa tridimensionale.
La figura umana sembra esclusa dalle composizioni dell’artista; in realtà tale scelta è solo apparente poiché in ogni composizione si coglie quel guizzo pittorico che descrive analiticamente, in contesti sommari, piccoli particolari che comunicano inequivocabilmente la presenza umana, ora con le delicatissime composizioni floreali poste sui balconi, ora con i libri sfogliati confusamente nello studio.Anche la gamma cromatica suggerisce il profondo senso lirico della sua scelta artistica: tinte unite, terse, a volte evanescenti, immergono l’osservatore in un’atmosfera onirica e incantata che, quasi prodigiosamente, riesce a mantenere inalterato il profondo legame con le origini, la pura essenza dell’uomo.
L’opera di Antonio Favale si contraddistingue per la spiccata sensibilità estetica, la coerenza contenutistica e l’equilibrio compositivo, tutti caratteri che insieme conferiscono concretezza all’apparenza, danno voce al colore e, non ultimo, contribuiscono nel ricreare il mondo degli affetti umani, in tutta la sua immensità, sullo spazio delimitato di una semplice tela.
Daniela De Vincentis
Guardi i suoi occhi e riesci ad intuire le sue intenzioni, dentro ci sono le sue opere nella variazione delle sfumature nei colori e nella materia. L’immobilità di quelle sculture mi colpisce e leggo le vele diverse e colorate in mezzo al mare che si muovono nei miei racconti per immagini fatti di segni leggeri che si incontrano in quel mare che non c’è, in uno spazio di cui perdo la percezione, ma che mi appartiene e con il quale entro in contatto solo con un sogno. Sono sculture uguali e terribilmente diverse, sfide intense di colori… Ogni “cosa” che sembra uguale è diversa ed ha bisogno di tempo per non cambiare, “cose” immobili che scatenano movimenti dell’animo. E’ bizzarro e creativo declinare in maniera astratta un universo nella tela e nella realtà, plasmarlo con la materia. Ogni volta che vedo o osservo i lavori di Antonio, che lo ascolto mentre mi parla della sua produzione o sento le presentazioni di altri, è per me un evento singolare perché ognuno di noi trova dentro il suo posto dell’anima e il sogno che da bambino è una meta irraggiungibile e spesso esotica si avvera o forse no, si aggiunge ad una nuova scoperta. Quando finalmente dopo credi di essere riuscito a raggiungere quello che hai sognato, provi un tuffo al cuore, pensi al mare, alle vele, al soffio lieve del vento e i frammenti della materia sono tenui, ma anche questo non basta devi continuare . Se sei stanco, pensi a quel viaggio e a quel sogno che può durare tutta la vita e in sintesi provi la stessa soddisfazione dell’essere con i lavori e le opere di Antonio. La memoria nel tempo diventa molto labile, ma quello che non scordi è il rapporto che si crea con certe figure speciali, strutture leggerissime, eteree, immerse nella luce naturale e della fantasia, coreografie fisse, in movimento, pose rigide, giochi sapienti del fluire di materiali diversi, di tecniche, di esperienze e ricerche. Tutto questo o forse altro ancora sono le opere di Antonio Favale. Queste strutture sono requisiti ancora più interessanti del contenitore e si possono trovare dolcemente in tutta la sua produzione. Le sue opere sono oggetti combinatori di elementi che vanno a gonfie vele nel mare sereno, tranquillo, equilibrato e vibrante della vita. Dall’acqua è l’origine di tutte le cose, ma l’acqua trasforma i luoghi della fantasia e della realtà dove vive l’uomo e questo non basta perché le regole di combinazione vengono scartate e si impongono in modo stabile. Per entrare dentro allora bisogna sedurre le “cose” semplici che trovi nelle sue opere cercando quell’energia che conduce al porto sicuro. Nessun porto o ricerca però è il punto d’arrivo, ma una porta per un’ulteriore navigazione. Le vele solcano un mare infinito e gli oggetti dominano con gli stessi tratti e con il loro colore, la furia e la pace delle onde, trasformano l’artista e chi è immobile ed osserva un’opera, sperando di ritornare con chi l’ha creata all’origine, ad un punto”in – catturabile”.
Forse è azzardato dire che dopo aver visto la Mostra presso SPAZIO LAZZARI si può uscire felici e lieti, ma la visita può servire per giocare con la fantasia, per navigare in un mare senza prendere le dovute precauzioni, per vedere la materia danzante di un mondo incantato che la circonda e offre l’origine per recuperare le immagini affettive del rapporto con le “cose”. La Mostra riesce a suggestionare perché Antonio non ha ancora superato il sano imbarazzo di un artista che modestamente, ma con grande forza sa gestire un mestiere decisamente poco naturale che favorisce la tensione mentale del gesto che diventa segno con il colore e attraverso la materia colorata inventa, manipola, sperimenta.
Giorgio Baccichetto
Nella ricca produzione di Antonio Favale domina la tematica della natura, protagonista di diverse serie pittoriche, esaltata e trasfigurata dal processo creativo dell'artista.
Di fronte al tema dominante del paesaggio, l'artista sembra rivolgere lo sguardo su se stesso, riscoprendo una visione soggettiva della natura.
Cime montuose, colline, marine, boschi sono protagonisti delle diverse serie pittoriche; maestosi e monumentali nelle loro forme, occupano interamente il campo visivo, delimitato spesso dal bianco della tela.
La materia cromatica è stesa attraverso una gestualità rapida e decisa che ritorna su se stessa, trascinando, cancellando, ridisegnando le masse di colore e combinando liberamente sulla tela tecniche diverse, dall'acquerello al pastello alla pittura ad olio. Sovrapposizioni cromatiche, segni e incisioni divengono struttura e traccia del ripetuto agire dell'artista, guidato dalla particolare sensibilità verso il valore materico ed emotivo del colore. Quest'ultimo è protagonista assoluto nelle ampie stesure o nelle colature che scendono libere oltre i limiti del campo visivo.
Il punto di vista varia continuamente, dalle vedute panoramiche delle cime rocciose e delle ampie colline, alla visione delle radure boscose, tanto ravvicinata da inoltrarsi nel fitto susseguirsi degli alberi.
Nella serie delle Cime, a volte i monti si ergono con la forza plastica delle loro masse rocciose, a volte invece si fondono nell'atmosfera e la roccia si smaterializza nel frammentarsi dei segni sottili di pastelli e matite.
Attraverso il suo operare, Antonio Favale si “appropria” di ogni soggetto che viene ripetuto, ridisegnato e rimodellato fino a esaurire la sua tensione lirica.
L'artista sembra immergersi nel paesaggio naturale e stemperarlo nelle variazioni, nelle condensazioni e nei movimenti della materia pittorica. Il luogo viene trasfigurato dalle plastiche pennellate capaci di scomporre e ricomporre l'unità della percezione restituendo la suggestiva visione interiore.
Roberta Gubitosi